Quella lingua universale chiamata CALCIO!

Calcio Dopo un paio di settimane borderline, mi rituffo a testa bassa nel mio racconto del Messico, e nello specifico torno a parlare della vita di città. Qualche giorno fa sono andato a trovare un cliente con cui sto iniziando un progetto, ho preso il metro sotto casa alla fermata Patriotismo e dopo il cambio a Tacubaya (uno dei posti più brutti che abbia mai visto) sono arrivato ad Insurgentes. L'uscita dalla metro è in una piazza enorme sotto il livello della strada, praticamente al centro di una circonvallazione/rotonda. Otre la piazza si vedono palazzi federali e squarci di blu. Un sottopassaggio fiancheggiato da negozi per lo più chiusi mi porta su un marciapiede che costeggia una sorta di palestra all'aperto che il governo messicano mette a disposizione degli abitanti della città (e dei turisti con permesso temporaneo come me). Subito dopo vedo un campo da calcio con terreno in cemento. Mi fermo a guardare qualche secondo la scena e vedo un gruppo di ragazzi che corrono dietro a un pallone che cercano un po' goffamente di mettere dentro a delle porte fatte con zaini e maglie buttate lì senza troppa cura. Io ero vestito in maniera abbastanza elegante con pantaloni beige, una camicia a quadretti viola chiaro e un paio di scarpe nero lucido. Il tempo scorreva, il cliente aspettava e io non ho saputo resistere alla vista di quella scena. Aggrappato alla recinzione vedevo e sentivo quei ragazzi divertirsi come pazzi e io pressato dalla mia responsabilità ho dovuto lasciarli lì e andare all'incontro con il mio cliente. Per tutta la durata della riunione la mia mente non era in quell'ufficio semi-buio illuminato da vecchi neon, ma era rimasta sotto il sole di quel campo, che ho raggiunto di corsa una volta liberatomi dai miei obblighi lavorativi. Vedendomi lì un ragazzo ad un certo punto mi fa un cenno. Io decisamente sorpreso mi indico da solo puntandomi il dito contro il petto. "Sì" dice lui. Senza pensarci due volte mi fiondo in campo presentandomi un po' alla buona con gli altri ragazzi, strafregandomene dei pantaloni puliti, della camicia stirata e delle mie scarpe lucide. Un po' per gli abiti non adatti, un po' perché era mesi che non toccavo una palla, ho faticato ad entrare in partita, ma una volta preso il ritmo ho iniziato a macinare passaggi filtranti, assist e qualche gol. Il tempo passava e nemmeno i crampi e il sudore che mi dava un aspetto da scappato di casa sono riusciti a placare la mia voglia di continuare a correre dietro quella sfera di cuoio mezza rotta. Mi è sembrato di tornare in una delle mie estati siciliane quando i miei anni non erano ancora arrivati alla doppia cifra e io passavo le giornate in strada a giocare a calcio a petto nudo usando le ruote delle macchine posteggiate come pali: "OOOOH FERMAAA" e quando qualcuno gridava così tutti sapevamo che era il momento per prendere fiato. La macchina passava e un decimo di secondo dopo la palla era di nuovo in campo e noi dietro di lei. La partita tra Messico e resto del Sud America più io (con me in squadra c'erano un ecuadoregno, un panamense e un venezuelano) finisce con un rigore che tocca battere a me. "Se te lo paro mi offri un gelato" mi dice Freddy (Alfredo) da dentro i due zaini che delimitano la porta. "Se lo sbaglio offro il gelato a tutti" dico io. In quel momento mi passano per la testa le immagini più disparate e poi Totti che fa il cucchiaio in un Roma-Chievo di qualche hanno fa e Lupatelli che glielo para. Punto il palo alla mia sinistra, allargo quanto basta la traiettoria e spedisco il pallone fuori dalla porta. Tutti esultano, anche quelli della mia squadra, non gli importava della partita, meglio vincere un gelato. Dopo essere passato al bar li vicino mi metto a parlare con Freddy che mi racconta la sua storia e mi accenna quella dei suoi amici. Abitano tutti lì nelle vicinanze e più o meno fanno tutti la stessa vita. Molti sono stati costretti ad iniziare la vita da adulto prima di quanto sarebbe giusto, per portare soldi a casa e aiutare i genitori. I ragazzi non messicani poi hanno una storia di fuga dal loro paese, alla ricerca di una vita migliore. Chi si ferma in Messico è perché ancora non è riuscito a passare la frontiera con gli Stati Uniti, oppure c'ha provato ed è andata male. Freddy mi racconta dei suoi progetti, dei suoi sogni. Ha la mia età e c'ha già due figli. Mi dice che gli piace cucinare e che un giorno vorrebbe aprirsi un suo locale di cucina tipica messicana per mettere in opera tutto quello che la nonna gli aveva insegnato prima di morire. Freddy non ha una laurea, non ha nemmeno finito quella che per noi è la scuola media, ma ha una voglia di vivere enorme, e soprattutto ha voglia di far vivere alla sua famiglia qualcosa di diverso rispetto a quello che ha vissuto lui. Per guadagnarsi da vivere fa diversi lavori, tra cui quello di portare in giro il pane la mattina con una bicicletta e un turno serale in un internet point. Gli piace leggere e ogni tanto pensa a come sarebbe stata la sua vita se avesse avuto le opportunità a cui noi siamo abituati: si vede laureato in letteratura e forse scrittore di un racconto, la sua storia o quella che non avrebbe mai vissuto. Salutandolo lo abbraccio e abbraccio tutti gli altri ragazzi. Spero di trovarli lì la prossima volta che dovrò andare da quel cliente. Da parte mia posso ringraziare Freddy per quello che mi ha raccontato e per avermi fatto vedere un lato del Messico che non conoscevo. Lo ringrazio per avermi raccontato quella che è la storia di molti ragazzi che si trovano a mettere da parte i propri sogni per qualcosa di più importante: la vita. Una vita che però non si sono scelti, una vita che qualcun altro gli ha costretto a vivere. Non so se mai riuscirà ad aprirsi il suo ristorante o se mai un giorno riuscirà a raccontare la sua storia a qualcuno, oppure a scriverla lui stesso, intanto lo faccio io per lui! Nos vemos amigos!

Diario di bordo: 114 giorni dall'arrivo

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